Se n’è andato Gato Barbieri, un grande della musica
E’ morto a 83 anni nella sua casa di New York per le complicazioni di una polmonite. The tenor saxophone roarer, come fu definito dai Rollig Stones. Il ruggitore del sassofono tenore.
E, in effetti, lì dentro Gato non soffiava, ma ruggiva: strillava, si lamentava, dava parole allo strumento che diventavano suoni, ma restavano urla.
Poche note, pochissime, ma infinitamente variate, modulate, strette, allargate, allungate, come un pianto, come un singulto.
Gato era questo, un pezzo dell’America Latina del Tango di Piazzolla con venature di free Jazz, un mostro sacro della nostalgia, un signore piccolo, misterioso, ineffabile, capace di lunghi silenzi e di interpretazioni memorabili, strappa cuore, strappa lacrime.
Sotto quell’eterno cappello buono per ogni stagione e dietro quegli occhiali scuri che portava pure di notte, si celava un viso che raramente era dato di vedere nella sua interezza.
Era il volto discreto della nostalgia, del Patos elevato all’ennesima potenza. Era la nostalgia che diventava urlo di rabbia.
Lui che aveva dato vita a una delle colonne sonore più belle, quella di Ultimo tango a Parigi. E che aveva interpretato Sapore di sale di Gino Paoli.
E che aveva suonato in memorabili concerti con Antonello Venditti e Pino Daniele.
Vinse un premio Grammy e, nel novembre scorso, un Latin Grammy. Una lunghissima carriera e 35 album, anche se non tutti memorabili.
Ma collaborazioni di livello assoluto, addirittura con Miles Davis e Carlos Santana.
Gato lascia un buco profondo nella musica e nei nostri cuori, perché quella che ruggiva dentro il sassofono non era solo musica, era qualcosa di più.