Negli ultimi anni, la società occidentale si è trovata al centro di una crisi della salute mentale senza precedenti. Mentre i tassi di ansia, depressione e disagio psicologico crescono costantemente, ci si interroga sulle vere radici di questo malessere collettivo. Non si tratta più soltanto di dati statistici o di report allarmanti: la sofferenza psicologica sta trasformando profondamente il modo in cui viviamo, lavoriamo e interagiamo con gli altri. Ma cosa ha realmente alimentato questa crisi?

La Cultura Terapeutica: Quando i Sentimenti Diventano Diagnosi
Negli ultimi decenni, è emersa una tendenza culturale sempre più marcata: la patologizzazione delle emozioni comuni. Stati d’animo come tristezza, preoccupazione o senso di fallimento, un tempo considerati parte integrante dell’esperienza umana, oggi vengono frequentemente etichettati come disturbi da trattare. Questa “cultura terapeutica”, come la definì già nel 2003 il sociologo Frank Furedi nel suo libro Therapy Culture, ha spinto intere generazioni a percepirsi come fragili e costantemente bisognose di supporto psicologico.
Secondo Furedi, la crescente convinzione che ogni difficoltà della vita rappresenti una minaccia alla nostra salute mentale ha alimentato un approccio passivo alla realtà. I problemi, anziché essere affrontati con resilienza, vengono interpretati come segni di un malfunzionamento emotivo da correggere.
Dai Lockdown alla Disconnessione Umana
La pandemia e i conseguenti lockdown non hanno creato il problema, ma lo hanno amplificato. L’isolamento forzato ha avuto un impatto devastante su una società già intrappolata in un ciclo di introspezione emotiva e ipersensibilità. Le giovani generazioni, cresciute in un clima culturale in cui la vulnerabilità è spesso esaltata, si sono ritrovate impreparate a gestire l’incertezza e la solitudine.
Uno degli esempi più drammatici di questa crisi si osserva nei Paesi Bassi, dove, secondo recenti dati, un numero crescente di persone ha richiesto l’eutanasia a causa di sofferenze psicologiche insostenibili. Il fatto che un’intera fascia di popolazione, soprattutto giovane, percepisca la propria vita come insostenibile al punto da chiedere la morte, è un segnale d’allarme che non può essere ignorato.
La Vita Virtuale e la Perdita della Nostra Umanità
Un altro elemento chiave è il crescente spostamento delle nostre vite verso la dimensione digitale. I social network, lo smart working e le interazioni online hanno sostituito, in larga parte, il contatto umano diretto. Tuttavia, la natura umana ha bisogno del corpo tanto quanto della mente: abbiamo bisogno di toccare, di guardarci negli occhi, di sentire la presenza fisica dell’altro. I lockdown hanno rivelato quanto questa verità fosse stata dimenticata.
Vivere online ha accentuato sentimenti di solitudine, insicurezza e incomunicabilità. Nel mondo digitale mancano le sfumature: il sarcasmo può diventare offesa, il disaccordo viene percepito come attacco, e l’assenza di linguaggio non verbale annulla empatia e comprensione. In questo scenario surreale, l’essere umano si riduce a un’identità frammentata, senza ancoraggi reali.
Gli Eccessi dell’Attivismo e l’Ipercorrettezza Tossica
Parallelamente a questa trasformazione interiore, si è sviluppata una forma di attivismo morale radicale che, pur dichiarando di lottare contro l’odio, spesso finisce per alimentarlo. Organizzazioni come Stop Funding Hate, finanziate anche da fondi pubblici, si trovano al centro di polemiche per la diffusione di messaggi discriminatori, in netto contrasto con i principi che affermano di difendere.
L’ironia è evidente: movimenti nati per promuovere l’inclusione finiscono per cadere in una spirale di intolleranza e ipocrisia. La morale pubblica, una volta ancorata a valori condivisi, si è trasformata in un’arma ideologica con cui colpire il dissenso.
Una Lezione per il Futuro
Ciò che dovremmo davvero imparare dai lockdown e dalla crisi che ne è seguita è che l’essere umano ha bisogno di contatto, di realtà, di esperienze autentiche. Affidarsi ciecamente ai diktat dei politici o alle soluzioni rapide offerte dalla cultura terapeutica non basta. Serve un ritorno alla responsabilità individuale, alla resilienza e alla consapevolezza che la vita, anche nei suoi momenti più difficili, è fatta per essere vissuta nella sua interezza — corpo, mente, emozioni, relazioni.
Nel 2025, il bisogno di tornare a vivere fuori dagli schermi, a costruire connessioni reali e a recuperare un senso di umanità condivisa è più urgente che mai. Solo così potremo sperare di uscire da questa crisi, non solo psicologica, ma profondamente esistenziale.